Una storia sbagliata: oltre il racconto del “camionista assassino”
Per quel che vale la mia opinione da privato cittadino, provo un profondo dolore per quello che quasi all’unanimità viene definito dai media “il camionista assassino”. Per un breve arco di tempo della mia vita ho lavorato a stretto contatto con i camionisti, ho visto i ritmi massacranti a cui sono sottoposti e ho visto la gioia nei loro occhi quando raccontavano che, finalmente, spesso dopo lunghe settimane, potevano tornare a casa ad abbracciare le loro famiglie. È evidente che queste mie parole non possono, né vogliono, giustificare in alcun modo ciò che è avvenuto ieri a Biandrate, un fatto terribile e tragico, che sta diventando il simbolo di molte ingiustizie e contraddizioni della nostra contemporaneità. Ma, non di meno, mi struggo nel pensare alla situazione che oggi il giovane camionista sta vivendo. A soli 25 anni, quando la maggioranza degli italiani ancora vive con i propri genitori, o magari si sta prendendo con calma il tempo per affrontare gli ultimi esami da fuori corso, Alessio Spasiano ha già due figli piccoli che lo aspettano a casa e un lavoro duro, ma essenziale per tutto il Paese. Alessio ha una responsabilità sulle spalle che molti di noi, anche molto più grandi e più maturi, non abbiamo e con questa responsabilità ci convive tutti i giorni. Ci convive anche nella tragica mattina del 18 giugno, quando, probabilmente dopo aver guidato di notte per effettuare l’ultima consegna, scarica il suo camion e si appresta alla via del ritorno, per ritornare dalla sua compagna e dai suoi figli. Alessio non è “il Padrone”, non è neanche “il Capitalista”, è solo un ragazzo di 25 anni, che si vede la strada sbarrata da meno di 20 persone che non vogliono farlo passare. Volano parole forti. Alessio, oltre ad essere stanco e desideroso di abbracciare la sua famiglia, magari ha anche un temperamento focoso. Ma non è certo l’assassino che i media dipingono, né il picchiatore assoldato dai “poteri forti” che gli ambienti di estrema sinistra millantano. Davanti a quel polo logistico di Lidl, Alessio probabilmente non si rende nemmeno conto di quello che sta per succedere. Stupidamente pensa che provando a forzare il posto di blocco le persone semplicemente si sposteranno. Ma quando si accorge che così non è, è tardi. Tardi per lui, tardi per il giovane Adil, tardi per i sogni di entrambi, ormai poco più di cenere. In quel momento, non è il senso civico a prevalere. È la paura. Paura per ciò che ha appena fatto, paura per ciò che potrebbero fargli le persone con cui aveva appena discusso se scendesse dal camion. Alessio scappa. Ma, come è noto, la sua fuga non dura molto. L’adrenalina svanisce, ma con essa non vanno via né la paura né il senso di colpa. Io immagino Alessio chiamare una persona di cui ha fiducia, che rappresenta un tempo della sua vita quando le cose erano più semplici, quando la fede cattolica dava gran parte delle risposte di cui si aveva bisogno. La fuga “dell’Assassino” finisce così, con una sua chiamata al 112. Sì, Alessio. “È successo un casino”. Con ogni probabilità non sapevi nemmeno chi fossero quelle persone. Non sapevi che manifestavano contro un contratto nazionale che in quello stabilimento non viene nemmeno applicato. Sapevi solo di voler tornare a casa, e hai commesso un errore. Il più tragico della tua vita. Io, Alessio, non ti conosco. Non ti conoscerò mai probabilmente. Ma non potevo rimanere zitto a guardare e ad ascoltare la narrazione di chi ti vuole come il mostro di questa storia. Come sempre nella vita, non è tutto bianco o nero ma presenta svariate tonalità. Come molti hanno da tempo capito, spesso non si celano oscure volontà dietro agli avvenimenti, ma sono solo un tragico frutto del caso. Forse, un giorno, anche chi su questa storia sta facendo l’avvoltoio se ne renderà conto.